Non puoi fermare il vento,

ma devi sapere come fabbricare mulini.

Quando posso permettermi una mezz’ora di rigenerazione mi piace andare sulla balconata del Castello di Miramare, meglio se il borino ha reso l’aria tersa. Da lì ho la sensazione del fluire. Il movimento del mare che senza soluzione di continuità da Shanghai, da Los Angeles o da Melbourne fluisce fino all’estremo nord del Mediterraneo; il fluire della storia, che drammaticamente nel secolo scorso ha scavato solchi invalicabili in questa città, il fluire delle civiltà, che da lì si abbracciano in uno sguardo: quella latina dalla laguna di Grado, quella germanica dalle Alpi e quella slava dal Carso, che tutte sembrano confluire nel nostro golfo.

Ma quest’angolo di mondo è stato anche uno dei più terribili teatri di guerra, non tanto forse per il numero di morti, ma per lo scontro fra le tre civiltà che è entrato profondamente nelle nostre vene, tanto da farci rimpiangere, spesso, i bei tempi andati di ordine e prosperità vissuti dal primo porto di un grande impero. 

Così come la nostra città è una città di flusso, a volte anche sferzante come la bora, anche il nostro porto è un porto di flusso, così diverso da altri porti adriatici, riparati nei canali o protetti nelle loro lagune, così drammaticamente inadeguati ad accogliere navi sempre più grandi da richiedere pescaggi di almeno 16 metri: pensiamo che la nave Ever Given, nota per essersi incagliata nel canale di Suez lasciando mezzo mondo con il fiato sospeso, ha 400 metri di lunghezza e, nel momento in cui scrivo, sta navigando verso Rotterdam con un pescaggio di 15,60 m

Un porto ideato come flusso, banchine costruite come unghie della ferrovia sul mare.

Al di là del progetto tutto cinese della “belt and road”, la nuova via della seta è concretamente già aperta, in considerazione degli enormi volumi di traffico che si spostano dall’Estremo Oriente all’Europa e viceversa. Ma attualmente le esportazioni dall’Estremo Oriente all’Europa sopravanzano notevolmente le esportazioni dall’Europa all’Estremo Oriente: il flusso di merci che parte dai grandi centri di produzione della Cina interna e raggiunge l’Europa centrale con i treni, non è bilanciato da un flusso di ritorno dall’Europa alla Cina stessa. Ecco perché, pur essendo la performance ferroviaria molto buona in termini di tempo e pur essendosi molto ridotta la differenza di costo fra trasporto ferroviario e marittimo durante la pandemia, l’incidenza del trasporto ferroviario non potrà superare il 25%. La mancanza di bilanciamento di flussi, che è un fattore drammatico nel trasporto ferroviario, è un fattore che viene in qualche modo mitigato nel trasporto via mare, dal momento che le navi seguono delle rotte che toccano numerosi paesi e quindi possono trovare carico per questi e ridurre quindi le diseconomie di un trasporto vuoto per pieno.

Non a caso il progetto cinese, culturalmente attento al bilanciamento dei flussi, non è solamente una nuova via terrestre, soprattutto ferroviaria, sicuramente politicamente più stabile e non vincolata dalle sorti del canale di Suez come la via marittima, ma è un progetto combinato e circolare: “one belt, one road”.

A mio avviso la cintura si chiude idealmente con la congiunzione fra la via della seta terrestre e la via della seta marittima. Le merci che arriveranno in Europa via mare, serviranno a bilanciare almeno parzialmente il rientro dei treni vuoti dall’Europa all’Asia. E la congiunzione fra la via marittima e la via terrestre non può che essere a sua volta il tratto ferroviario più veloce e più capace fra il capolinea marittimo ed il capolinea ferroviario. Questo non è un progetto cinese, è solamente logistica ! Non sembrano avere dubbi i vertici del porto interno tedesco di Duisburg, che sono entrati nella compagine azionaria dell’Interporto di Trieste. 

Unghie protese verso il mare che grattano via le merci e le portano in flusso.

 

Il porto di Trieste

Ma basteranno fondali e ferrovie a rimettere il nostro porto fra i fori di questa cintura? 

Ecco allora che il regime di porto franco internazionale, assegnato a Trieste dal Trattato di Pace di Parigi ed ereditato dallo Stato italiano come obbligo, può diventare un fattore di vantaggio per noi, essendo unico nell’Unione Europea.

La discussione se il porto franco internazionale abbia senso solo in relazione al Territorio Libero di Trieste, che non sono qualificato per affrontare dal punto di vista del diritto internazionale, può essere invece affrontata e risolta dal punto di vista esclusivamente commerciale. La rilevanza economica del porto franco è quella di essere esattamente quello che è: territorio politico dello Stato italiano e dell’Unione Europea, ma esterno al territorio doganale dell’Unione Europea. Se non fosse Unione Europea, al passaggio delle merci fra Territorio Libero di Trieste e Unione Europea dovremmo pagare dazi di importazione, fissati in base ad accordi commerciali fra queste due entità statuali (è quanto stiamo facendo dopo la hard Brexit, con grande penalizzazione dell’interscambio commerciale). Se ci fossero delle lavorazioni industriali all’interno del porto franco, i prodotti non avrebbero la possibilità di acquisire l’origine europea, ma prevedibilmente un’ origine triestina, senza grande valore commerciale sul mercato mondiale. Pur comprendendo bene che poterci sganciare dalla zavorra di un debito pubblico italiano fuori da ogni controllo ci permetterebbe di pagare meno imposte e di gestirle sicuramente meglio, il valore economico del porto franco sta nella sua appartenenza all’Europa. L’alternativa porterebbe alla creazione di un paradiso fiscale, ma non sarebbe né l’unico, né il più alettante, considerando che per raggiungerlo si dovrebbe sbarcare in un aeroporto italiano o sloveno. 

Il vero punto della questione è che l’Italia, che – comunque la si pensi – è amministratrice civile del porto di Trieste, non ha rappresentato bene i propri interessi in Unione Europea, accettando nel 2013 che il porto di Trieste venisse inserito all’interno del codice doganale europeo nella lista delle zone franche europee. Uno sbaglio enorme, incoerente con tutto quello che la diplomazia italiana aveva fatto precedentemente presso l’Unione Europea su questo tema. Il porto franco di Trieste è superiore alla zona franca, ed è quindi fondamentale non confonderlo e non accettare di ridurlo a una zona franca. Lo sbaglio dev’essere corretto, nell’interesse innanzitutto dell’Europa. Per chi volesse approfondire il regime di porto franco, rimando alle note in calce.

Le proposte di istituire una zona logistica semplificata in territorio giuliano non possono e non devono sostituire il regime di porto franco: esse potrebbero eventualmente arricchirlo di qualche beneficio fiscale, seppur limitato nel tempo. Se solo l’Italia volesse rispettare l’art.16 dell’Allegato VIII al Trattato di Pace, secondo il quale le merci sbarcate ed imbarcate al porto di Trieste non possono essere gravate da pagamenti diversi da quelli imposti per servizi resi, avrebbe (avuto) l’opportunità di non applicare tutta una serie di tasse ed imposte, a partire dall’IMU sugli immobili siti nei punti franchi, senza incorrere ad alcuna censura da parte dell’Unione Europea. Ricorrere ora ad una ZLS per introdurre degli incentivi fiscali sarebbe tanto opportuno (basti pensare alla differenza di fiscalità con la vicina Slovenia e con l’Austria), quanto proditorio, se il territorio in cui istituirla non fosse inserito nelle aree depresse identificate dall’Unione Europea. Per quel che riguarda la semplificazione amministrativa prevista nelle ZLS, stenderei un velo pietoso in considerazione dei tempi comunque biblici per una qualsiasi pratica, tali da scoraggiare qualunque imprenditore nostrano o estero; ridurre i tempi di 1/3 mi sembra una soluzione totalmente inadeguata ad un problema – i tempi ed i modi della burocrazia – che tutti unanimemente riconoscono come “il problema”. Volessimo attuare completamente il regime di porto franco, anche in questo caso l’esistenza di un responsabile unico per la pratica amministrativa (l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Adriatico Orientale) favorirebbe nettamente l’insediamento di nuove attività produttive, anche nella tempistica ordinaria delle stesse pratiche.

  

Uno dei principali vantaggi del Porto Franco consiste nelle lavorazioni effettuate sulle merci depositate al suo interno. Un beneficio ben noto ai nostri padri, ma praticamente non utilizzato negli ultimi 30 anni a causa di un’incertezza normativa, prima legata alla mancata adozione dei decreti legislativi per l’amministrazione del porto franco, attesa dal 1994 al 2017, ora dovuta ad un tentennamento dell’Agenzia delle Dogane, che sostiene l’impossibilità di sottrarre le lavorazioni industriali in porto franco alla giurisdizione generale del codice doganale europeo, proprio in virtù dell’errata classificazione del porto franco internazionale di Trieste fra le zone franche europee, di cui dicevo sopra.

Negli ultimi due anni ho avuto modo in alcune sedi istituzionali e in varie occasioni pubbliche di dimostrare con delle semplici simulazioni quali sarebbero i vantaggi di poter ottenere dei prodotti combinando merci estere all’interno del porto franco di Trieste, permettendo di ottenere una certificazione di prodotti europei pur non avendo le merci mai fatto ingresso nell’Unione doganale e quindi non avendo scontato mai dazi ed IVA all’importazione. Mi sembra che il dato sia ormai stato riconosciuto ed acquisito: ora il governo italiano deve superare le incertezze e, nel suo stesso interesse, deve dimostrare di essere capace di attrarre industria, sia essa nuova o di ritorno: se non è in grado di farlo a Trieste, ben difficilmente lo potrà fare in altre zone economiche speciali, se non innaffiandole di aiuti e sgravi fiscali.  

l’Associazione Punto Franco, che ringrazio per ospitare questo mio intervento, sfrutta la ritrovata popolarità di un regime unico in Europa, con l’intento dichiarato di creare un luogo “libero, aperto e trasversale, organizzato per accogliere i contributi più diversi, pensato per guardare oltre gli schemi e le divisioni”. Ed a ben guardare proprio questo è il fondamento del Porto Franco Internazionale. l’enfasi va, in questo caso, proprio su quell’aggettivo “INTERNAZIONALE”, che il trattato di pace ha voluto imprimere su un regime che esisteva dal 1719 (città franca) ed era già stato profondamente ridimensionato nel 1891 (porto franco). Grazie a questo strumento di legge internazionale, il porto di Trieste è il luogo dove, secondo le regole e con i controlli garantiti dalle autorità (autorità di sistema portuale, con il sistema delle concessioni e autorità doganali con il sistema dei controlli sulle merci in entrata ed uscita), merci e persone di ogni nazionalità possono incontrarsi e rendere prospero il territorio. Non è un covo di contrabbandieri ed evasori fiscali, è la cupola sotto la quale il commercio internazionale può continuare e svilupparsi anche durante una guerra di dazi, in attesa che ritorni la pace commerciale… “oltre gli schemi e le divisioni”!

La nostra città si trova quindi, quasi inconsapevolmente, davanti ad un nuovo possibile salto. 

Mettendo in relazione la crescita demografica di Trieste con i momenti fondamentali dello sviluppo del suo porto, possiamo notare come a metà del 1850 due fatti abbiano completamente ribaltato le prospettive e portato ad uno sviluppo che non ha paragoni, se non forse in Singapore alla fine del secolo scorso o in Dubai all’inizio di questo millennio.

 Il porto ha ormai lanciato la sua corsa, pur tra le mille difficoltà di una competizione aspra e scorretta con i vicini porti comunitari. Ma se il treno è partito, bisogna agganciarci i vagoni ! I vagoni sono l’industria, il turismo e l’accoglienza, il commercio tradizionale ed elettronico, la conversione ad un’economia sostenibile. Tutto questo può essere fatto, in modo armonico e con una visione olistica di sviluppo, senza contrapposizioni assolutamente stupide fra un settore e l’altro. Perché il porto è stato e sempre sarà il primo motore di questa città: ma come in passato questo motore ha acceso motori ancora più potenti, come le assicurazioni ed i cantieri, ora può di nuovo avviare processi sinergici in tutti i settori dell’economia.

Ora noi ci troviamo pronti per un nuovo salto. Se solo volessimo provare a spiccare il volo…

Non dobbiamo bloccare il flusso, ma dobbiamo farlo passare per il nostro mulino. L’enorme volume di merci che si riverserà, che lo vogliamo o no, attraverso il nostro porto, può semplicemente aumentare gli utili alle grandi compagnie di navigazione, oppure può generare lavoro e valore aggiunto, imposte e crescita demografica attraverso i mulini della logistica e dell’industria, favorita dal regime di porto franco. 

Ma lo spirito internazionale che stiamo realizzando nel porto di Trieste e nel suo retroporto deve tracimare anche nella comunità cittadina e nelle sue istituzioni. Dev’essere quello di Pasquale Revoltella, che capì come solo tagliando l’istmo di Suez ed aprendo il Mediterraneo a sudest sarebbe stato possibile sviluppare i traffici verso il Medio Oriente, il subcontinente indiano e l’Estremo Oriente. E il Lloyd Austriaco, poi Triestino fu a lungo concessionario di una banchina a Shanghai.  La visione dev’essere quella di Carlo Ghega, che realizzò la ferrovia impossibile lungo il tracciato del Semmering, sapendo come in quel momento non esistessero locomotive in grado di affrontare quella pendenza, ma essendo altrettanto certo che queste locomotive sarebbero state realizzate e per più di un secolo sarebbero passate su quel tracciato.  La determinazione dev’essere quella degli ingegneri che negli anni Sessanta del secolo scorso hanno realizzato l’oleodotto transalpino. un’altra opera impossibile, in cui un flusso invisibile, quello del petrolio greggio, ancora una volta scavalca le Alpi e defluisce in Baviera, in Austria ed in repubblica Ceca, dopo aver ricevuto impulso dal terminal della SIOT. 

Se avremo spirito d’impresa, visione e determinazione, il nostro mulino sarà il più grande e florido d’Europa.

Stefano

Visintin

Presidente Associazione degli Spedizionieri del Porto di Trieste